stroliga ha scritto:stavo studiando la Stevia e la Manna e mi sono persa nel web.
Molto interessante.
cara amica, sto pubblicando un libro su " tutto ciò che è dolce, in bocca e in letteratura" non potevano mancare i capitoli sulla Stevia, sulle proteine dolcificanti (di grande interesse ed attualità anche se semi-sconosciute) e, logicamente la manna.
I primi due sono roba mia mentre, circa la manna, c'è la gentile e ... "dolce" collaborazione di Silvana (anavlis) cui devo tante cose.
Purtroppo vedo che il testo che ti mando non contiene il ricco apparato di note che completa la esposizione. Ammesso che a qualcuno serva posso farlo avere completo con la preghiera di non diffondere perchè non ancora pubblicato.
abbraccio generale
Zucchero di SteviaNativa delle montagne fra Paraguay e Brasile, ora coltivata anche in Thailandia, Malesia, sud-Corea, Cina e Israele, esiste una pianta, la Stevia rebaudiana Bertoni , simile al crisantemo, che nelle foglie fresche contiene sostanze dolcificanti, non zuccherine, con efficacia edulcorante del tal quale circa 10/15 volte più dello zucchero da tavola.
Estratta dalle foglie, si usa come “polvere bianca” più dolce da 100 a 400 volte rispetto al saccarosio risultando il dolcificante naturale più efficace.
Una fogliolina fresca messa in bocca produce dopo qualche istante una forte sensazione dolce che lascia un lieve retrogusto di liquirizia.
L’uso della stevia era conosciuto, sia per il carattere dolcificante sia per certe proprietà medicinali, dai popoli indigeni del sud America e, tutt’ora in Brasile, è utilizzata nella medicina popolare come rimedio per il diabete.
L’uso della pianta e dei suoi estratti è vietato in Europa e negli USA in prodotti alimentari mentre l’impiego è approvato da alcuni Paesi dove l’estratto delle foglie è usato nei soft drinks, nella Coca Cola “light”, nella Diet coke, nelle gomme da masticare, nelle tavolette dolcificanti, negli sciroppi e in alcuni prodotti farmaceutici.
Il divieto totale o parziale della utilizzazione si rifà ad alcuni composti quali lo stevioside , lo steviolo e il rebaudioside-A segnalati come cancerogeni. Ne è suscitata una battaglia di reciproche accuse fra i produttori della stevia, da una parte e quelli dei “dolcificanti” dall’altra, ciascuno dei quali sostiene i propri interessi alla faccia dei consumatori. I paladini della pianta, pur ammettendo la presenza di sostanze di per sé cancerogene, ritengono che altrettanti rischi sono nel saccarosio, che aumenta la glicemia e favorisce il diabete, o nei dolcificanti sintetici ritenuti tossici da diversi studi.
Proteine dolcificantiSono sostanze estratte da frutti di varie piante botanicamente ancora poco conosciute ma intenso oggetto degli studi di ingegneria genetica mirati a trasferire in altri organismi i geni del loro DNA che presiedono alla sintesi mentre quelle molecole, ben note ed usate nell’industria alimentare soprattutto zootecnica.
L’elevato potere dolcificante, a parità di effetto e un ridotto apporto calorico, consente l’utilizzo di queste sostanze, proteine o polipeptidi, in quantità modiche.
Il loro carattere, scoperto quasi sempre in modo casuale, non consente ancora di fare un completo inventario di tutte le specie vegetali potenzialmente utilizzabili per la produzione di edulcoranti mentre si sono aperte nuove prospettive nella cultura nutrizionale dell’occidente dove, da tempo, ci si dedica alla possibilità di prevenire o correggere stati patologici quali l’obesità, la carie dentale, il diabete, le dislipidemie, le patologie cardiovascolari, l’ipertensione e la calcolosi biliare mediante la sostituzione lo zucchero nell’alimentazione con altri dolcificanti ai quali i consumatori sono sempre più orientati.
Nell’ottica di offrire prodotti a basso contenuto calorico, ovviamente con buone caratteristiche organolettiche e senza rischi di natura tossicologica, attiva è la valutazione della possibilità di ampliare la coltura di specie “alternative” che producano sostanze dolcificanti diverse dal saccarosio. Inoltre, al problema della dolcificazione degli alimenti, si è affiancato il concetto di “dolcificante multiplo” provando combinazioni con gli esaltatori dell’aroma per creare prodotti ipocalorici e di apprezzate caratteristiche di qualità e sapori.
Queste “proteine dolci”, più dolci centinaia o migliaia di volte del saccarosio, per il loro ridotto contenuto calorico solleticano il businnes aperto dalla possibilità del loro utilizzo.
E’ da dire che, se dal punto di vista fisiologico non è ancora chiarito il meccanismo dell’interazione fra i recettori del sapore e queste molecole che “ingannano” le papille gustative alle quali “segnalano” come dolce qualunque cosa le stimoli, amaro, aspro, acido, salato o piccante che sia.
Dal lato sanitario non ci sono ancora sufficienti dati scientifici circa l’impiego alimentare e le eventuali conseguenze sulla salute per cui l’aggiunta di queste proteine nelle cibarie, per lo meno, dovrebbe essere chiaramente specificata sulle etichette meglio di quanto prevede la normativa affinché, ciascuno, possa oculatamente scegliere.
La breve rassegna prende in considerazione le sette “proteine dolci” conosciute ad oggi.
CurculinaIn alcune zone della Malaysia vegeta la Curculigo latifolia dalla quale è stata isolata la curculina che, non solo è circa 550 volte più dolce del saccarosio, ma è anche considerata un modificatore dell’aroma e del gusto per la capacità di far percepire “dolce” quando il sapore, in realtà, è “acido”.
Il DNA che determina la sintesi è stato isolato e sequenziato.
MabinilinaSi ricava dalla Capparis masaikai , una pianta che cresce in diverse aree della Cina ed i suoi frutti contengono alcune proteine dolcificanti fra cui quella chiamata “mabinilina 2” , circa 100 volte più dolce del saccarosio. Della famiglia, tutte sono state descritte, clonate e sequenziate, e presentano scostamenti sia per il potere dolcificante che per resistenza al calore.
MiracolinaDa una pianta nativa dell’Africa Occidentale, la Synsepalum dolcificum , si raccolgono le bacche rosse, assolutamente insapori ma ricche di miracolina e usate da secoli per la proprietà “magica” di far percepire sapori gradevoli e dolci, in cibi altrimenti poco o tutt’altro che gustosi.
Scoperta nel XVIII secolo, in Europa non sono mai stati importati né la pianta, che non sopporta il trasferimento, né le bacche a causa della rapida degradazione.
Dagli anni ’60, quelle bacche riscoperte e proposte come miracle fruits, sono diventate un sostanzioso argomento di guerre commerciali fra le multinazionali dolciarie impegnate in spionaggi reciproci spese a suon di dollari e sperimentazioni concluse nel ’70 quando, negli USA, la potente FDA ha posto il divieto dell’uso della miracolina, si obietta, senza prove scientifiche circa la sua nocività.
La miracolina, in pillole o nei frutti surgelati, vietata in America e sconosciuta in Europa, è invece in libero commercio e largamente utilizzata in Giappone sia dai diabetici che da quanti rincorrono il sogno di dimagrire.
Contestata dagli zuccherieri come le altre, soprattutto è avversata dalle industrie di dolcificanti che, con modificazioni genetiche, sembra stiano “convincendo” l’Escherichia coli, o chissà, anche qualche umile insalata, a produrre la miracolina.
MonellinaPurificata la prima volta all’inizio degli anni ’70, è una proteina circa 3.000 volte più dolce del saccarosio ritrovata nelle bacche rosse della Dioscoreophyllum cumminsii , una pianta dell’Africa occidentale chiamata serendipity berry, bacca della serendipità . Anche la monellina è stata oggetto di ricerche al fine di produrla sia sinteticamente in vitro che da microrganismi geneticamente modificati . Il composto che si ottiene risulta di sapore uguale a quello naturale rispetto al quale si è dimostrato più stabile ai trattamenti termici ed alle variazioni di acidità dell’ambiente.
Neosperidina DCE’ un flavanone glucosidico che si ricava dalla naringina, un componente delle sostanze presenti soprattutto nella buccia degli agrumi e, particolarmente, del pompelmo .
Il suo carattere principale è di smorzare il sapore amaro mentre la sua dolcezza, alle concentrazioni maggiori, si associa a retrogusti che ricordano il mentolo o la liquirizia.
In ambito UE viene codificato con la sigla “E 959” ed in particolare si utilizza nella birra analcolica, nel sidro, nelle conserve di frutta e nelle caramelle balsamiche.
Per prudenza, si consiglia di non superare i 5mg/kg/giorno.
Pentadina e BrazzeinaIn alcuni Paesi dell’Africa tropicale vive un arbusto rampicante, la Pentadiplandra brazzeana , nella quale si rintracciano due diverse proteine dolcificanti conosciute con i nomi di pentadina e brazzeina.
La prima , isolata a fine anni ’80, ha un potere dolcificante maggiore circa 500 volte rispetto a quello del saccarosio. La brazzeina, isolata nel ’94, è una proteina a catena singola ed è la proteina dolcificante più piccola, idrosolubile. I geni che presiedono alla loro sintesi sono stati sequenziati consentendo di modificare geneticamente altri vegetali transgenizzati ora capaci di produrre la stessa molecola che risulta più stabile alle alte temperature ed alle variazioni di acidità.
Taumatina e taumatine-similiQuesta proteina, la taumatina , ha un effetto dolcificante 2.500-3.000 volte maggiore rispetto al saccarosio e si trova nei frutti rossi della Thaumtococcus daniellii, una pianta che cresce nelle foreste pluviali dell’Africa occidentale dalla quale si ricava quasi artigianalmente e si trova più che altro nelle reti del commercio solidale in Ghana.
La taumatina, ovviamente, non ha calorie se in quantità insignificativa, quindi non ingrassa e, a quanto si conosce, non presenta problemi documentati ai diabetici.
Diversa dalle altre, strutturalmente poco simile, è inserita in una famiglia chimica piuttosto vasta di altre proteine note come taumatina-simili.
Ancora non è economico produrle da altrii microrganismi geneticamente modificati.
Frutti e derivati della pianta, in Giappone, sono consumati da un trentennio mentre la proteina dolcificante, in Europa, indicata con la sigla “E 957”, è autorizzata solo come additivo.
La mannaLa più antica citazione della manna è quella, nota a tutti, riportata nella Bibbia quando la fatica della marcia, e soprattutto la fame, mette in crisi la fiducia degli Ebrei nel loro Mosè nonostante ripetesse che Dio aveva assicurato cibo per il suo popolo.
Visto il ritardo della promessa, di fronte al crescente mugugno del popolo, Dio toglie d’impaccio il condottiero, prima, fornendo carne facendo giungere quaglie in grande quantità, poi, una cosa ignota che sbalordisce gli increduli il cui stupore darà il nome al nuovo cibo misterioso da consumare secondo precise direttive .
Gli Israeliti mangiarono manna per quarant’anni fino a quando, giunti nella Terra promessa sotto la guida di Aronne, così com’era comparsa, la manna cessò di piovere dal cielo e sostenere quel popolo che, da allora, dovette procurarsi autonomamente il cibo.
Il miracolo, siccome gli uomini scordano presto quanto è stato loro donato, viene ricordato ripetutamente nelle Scritture di volta in volta per ricondurre all’ordine gli Ebrei , spiegare come stanno le cose , esaltare la grandezza di Dio , chiarire il segno premonitore dell’Eucarestia , .
Nelle altre culture, “manna” assume diversi significati, per esempio presso Greci e Romani indicava i grani d’incenso continuando a mantenere quel valore fino a quando, con l’affermarsi della religione cristiana, quel termine ricompare nell’opera del medico arabo Abu Zakarija Yahja Masujah (776-855), convertito al cristianesimo e meglio noto come Giovanni Mesue, e nel lavoro di Avicenna . La parola torna così nuovamente ad identificare la manna biblica e si ammanta di significati agiografici alimentati da racconti, che di bocca in bocca, si ingigantivano nella fantasia, nel tempo e nei luoghi, fino a diventare “verità” o fede .
Con quel termine, comunque, venivano indicate altre sostanze che si ottenevano dalla secrezione di diverse piante, soprattutto orientali, e si deve agli Arabi quando, dal IX secolo, la manna che conosciamo oggi, prese a diffondersi presso i popoli da loro variamente sottomessi.
Durante il medioevo, varie “manne” alimentarono un notevole commercio, mantenutosi fiorente soprattutto dalla Persia verso Oriente e Occidente, fino all’affermazione di quella estratta dai frassini che, per lo meno in Italia, continua ad essere la più nota e “manna” quasi per antonomasia. E’ stata, tra gli altri, Caterina da Siena, nel 1380, a spiegare che la manna poteva essere a disposizione anche della gente comune. La Santa si riferiva a quella sostanza zuccherina, leggermente purgativa che, specialmente nel sud dell’Italia, si otteneva incidendo il tronco del frassino.
Mentre Pontano , grande umanista napoletano, fra gli argomenti trattati nella sua vasta produzione che spazia dall’astrologia, all’etica, all’analisi della società, alla vita culturale del tempo, alla retorica, alla botanica , nel capitolo Meteorum liber, de pruina et rore et manna tratta l’argomento in eleganti versi .
Da quegli alberi, genericamente intesi come “orniello” (Fraxinus ornus) e “frassino meridionale” (Fraxinus angustifolia) incidendone la corteccia, si estraeva un liquido che all’aria solidifica e dà origine alla manna ricavata da tempi ben più remoti delle testimonianze da far risalire dominazione degli Arabi i quali certamente hanno valorizzato e tenuto in grande considerazione quel particolare prodotto. Si pensi al toponimo Gibilmanna derivato dalle parole arabe “gebel” e “mannah” cioè “terra, o monte, della manna”.
Le colline del versante settentrionale delle Madonìe presentano ancora oggi , per lo più incolte, estese macchie di frassini da manna, localmente chiamate muddìa. La loro coltivazione era presente anche nel territorio compreso tra Terrasini e Cinisi dove era venduta in una antichissima speziaria e la gente veniva ad acquistarla non solo dai paesi vicini ma anche dalla stessa Palermo. Fino a metà del XIX secolo, esisteva a Capaci una “via dell’antica Spezierìa” cancellata dalla moderna toponomastica lasciando, nel ricordo ormai di pochi, solo la memoria di quella fortunata attività, vecchia di vari secoli e ancora viva nell’Ottocento.
Ora la frassinicoltura si pratica quasi solamente su un centinaio di ettari di muddie nei territori dei comuni di Pòllina e Castelbuono, nell’entroterra di Cefalù in provincia di Palermo, dove qualche decina di frassinicoltori continuano il rito delle incisioni durante la stagione della raccolta va da luglio a settembre.
Ogni incisione sul tronco provoca una lenta fuoriuscita dell’umore, ’u sangu, gocce viscose bianco-azzurrine che a contatto dell’aria prendono consistenza e, lasciate attaccate al tronco per circa una settimana, vengono raccolte con cura dal mannaluòru o dall’‘ntaccaluòru che ogni 6-8 giorni procedono a nuovi intagli, le ‘ntacche, per tutti i mesi estivi ma sempre con grande attenzione a scrutare il cielo per cogliere nel colore del cielo al tramonto, nel “giro” dei venti, nella dimensione e nella forma delle nubi, i segni di perturbazioni atmosferiche.
Il rituale delle incisioni, carico dell’esperienza del mannaluòru e dell’‘ntaccaluòru, viene eseguito con il riguardo che si deve a un’operazione chirurgica quasi evocata nella terminologia “umana” a partire dalla sagnatura, la svenatura, fino ai nomi che indicano le parti del tronco dove incidere: u piettu, ’a panza, sul lato sporgente inciso a partire dalla prima produzione verso il 6-8° anno quando si accerta la qualità tagliando ’a pipita, un pezzetto della corteccia e saggiando u sangu. A partire dall’anno successivo si incide ’a schina, la schiena, o u cuozzu, il collo, e u menzu cuozzu, la nuca e, ma non prima del 3°-4° anno, si procede con l’’ntaccare i cianchi, i fianchi dell’albero.
Il bravo mannaluòru sa che non è buona pratica effettuare più di una incisione al giorno altrimenti ’a muddìa s’ammriaca e stuona, si ubriaca e stordisce, ed è bene alternare negli anni le serie delle ’ntacche, affinché lassanno ’a muddìa u tempu d’arrisangari, per riacquistare la linfa e, specialmente lungo u piettu dove il frassino ha linfa in maggior quantità, anno dopo anno si devono far progredire le ’ntacche distanziandole con precisione millimetrica.
Amorevole è il gesto de l’u ’ntaccaluòru che, per togliere la sporcizia, quasi come voler alleviare il “bruciore”, leviga e netta le superfici di taglio e, con acqua fresca e pulita, lava quel tronco pieno di cicatrici come si farebbe con un ferito.
Per l’incisione si utilizza con un particolare coltello, u mannaruolo, u cutieddu ri mannaluòru, u cutièddu ’a manna, una specie di roncola molto affilata, che taglia come un bisturi.
In base alle modalità di raccolta, la manna viene classificata in diverse tipologie.
La più pregiata, raccolta c’u archettu , è ’u cannolu, una specie di stalattite formata dal rapprendersi del gocciolamento d’ ’u sangu. Cu’ ’a ’rrasula, un raschietto metallico fatto a paletta con manico di legno, si procede con ’a ’rrasulata, la raccolta della seconda qualità rappresentata dalla manna ri ruttami, di rottame. E’ costituita da ’u sangu scorso lungo la corteccia del frassino dalla quale si stacca facendola cadere “n’i scàtuli ri lanna”, contenitori di latta.
Ultima è ’a manna in sorte, chiamata anche manna ri pala o manna corrente, formata dalla linfa sgocciolata sui cladodi dei fichi d’india che vegetano alla base dei tronchi di frassino.
Rimangono i muddicagghi, le briciole, un tempo appannaggio dei bimbi che ne avrebbero fatto piccoli traffici di un mercato tutto loro.
Una volta raccolta, la manna viene fatta asciugare sugli stinnitùri, prima all’ombra poi a pieno sole, per circa una settimana fino a quando avrà raggiunto il tenore di umidità ideale, circa il 9%, prima di essere riposta n’i scàtuli da conservare in ambiente asciutto.
Adesso, per non insistere sistematicamente con tagli successivi che finiscono per deprimere i frassini, si impiega un diverso sistema, meno … cruento, mediante l’impiego di fili di nylon legati ad una piccola laminetta d’acciaio che viene posta sotto l’incisione. ’U sangu, scorre lungo il filo e solidifica formando i “cannolu”, di lunghezza anche considerevole, consentendo una facile separazione dalla fibra sintetica, fornendo un prodotto pulito e, contrariamente al metodo tradizionale che obbligava ad una raccolta con frequenza almeno settimanale, la rende possibile anche ogni due - tre giorni.
Da qualche anno, nei territori che particolarmente hanno coltivato la tradizione, è ripresa la raccolta soprattutto grazie alla vivace attività pasticcera dei fratelli Fiasconaro di Castelbuono che, con geniali rivisitazioni del prodotto, hanno fatto risorgere l’attenzione alla manna.
Nel mondo esistono comunque altre “manne” derivate dalle secrezioni di diverse piante che, comunque, hanno in comune con la manna dei frassini, soltanto l’aspetto e la denominazione.
Quella del frassino, manna per antonomasia, è un essudato zuccherino con un sapore dolce-acidulo che deriva dalla presenza della mannite accompagnata da acidi organici, acqua, glucosio, fruttosio ed altri glucidi, mucillagini, resine e composti azotati.
La sua composizione è molto complessa e le quantità percentuali dei suoi costituenti dipendono da diversi fattori fra cui provenienza, età del frassino, caratteri pedo-climatici, tipologia merceologica della manna, ecc.
Oltre a un buon contenuto di ferro e calcio, nella manna si ritrovano diverse vitamine fra le quali prevalgono C, PP ed A né mancano alcuni microrganismi selvaggi capaci, in condizioni opportune, di fermentare gli zuccheri.
Buono e gradevole è il sapore ed il suo potere dolcificante è simile a quello del saccarosio tenendo però presente che, se la manna viene consumata oltre i 10 grammi giornalieri, può avere effetti lassativi.
La tabella che segue, ripresa con qualche modifica dal Consorzio tra i produttori di manna , riporta una composizione indicativa:
manna “cannolu” manna “ri ruttami”
% %
mannite > 55 40
acqua < 10 < 10
glucosio 2.2 3.0
fruttosio 2.0 3.0
stachiosio 12-16 16
mannotriosio 6.0 16
sali (Fe, Al, Cu, Mn) 1.5 2.0
frazione proteica tracce 0.01
altre sostanze s. q. s. q.