da ettore » 12 set 2008, 11:26
cari amici/e e cara Silvana, che qualche giorno fa hai toccato il mondo del "biologico", saprete che in questi giorni è aperto a Bologna il SANA, (SAlone NAturale) dove trionfano i prodotti “biologici”.
Consetitemi qualche considerazione che spero possa interessare.
La filosofia ha come base alcuni concetti tutti da definire e gioca soprattutto sull’immaginario suscitato dalle parole che cominciano con “bio-” facendo credere ciò che in realtà non è anche se evoca salute e benessere.
Dalla fine dell’’800 nell’agricoltura era entrata la chimica dei fertilizzanti, poi vennero i pesticidi, ultimi gli erbicidi.
Lo tsunami del “biologico”è cresciuto sull’onda di terrore conseguente all’ingresso della chimica che, nel dopoguerra, in Italia, prese piede e venne malamente usata per scarse conoscenze.
Partiamo dai primi entrati, cioè i concimi. I vegetali si nutrono assorbendo con le radici gli elementi minerali dei sali presenti nella soluzione circolante del terreno. Le piante non sono in grado di assorbire sostanze organiche che, per una serie successiva di trasformazioni, prima microbiche poi semplici reazioni chimiche, “mineralizzano” l’“organico” finito nel terreno. Se questo non succedesse, sulla terra ci sarebbero ancora in giro i cadaveri di Adamo ed Eva riciclati invece chissà quante volte passando dai vegetali agli animali ed infine mineralizzandosi nuovamente. Il ciclo, solo ad osservarlo, meraviglia nella sua perfezione !
Il fertilizzante chimico altro non è che un composto già mineralizzato, trovato come tale in giacimenti naturali come i fosfati o i sali potassici, o mineralizzato a partire dall’azoto dell’aria, in un caso o negli altri accelerando quando in natura fanno certi microrganismi a partire da sostanza organica.
Il tutto rende più facile la vita dei vegetali coltivati che così, trovando “la pappa fatta” senza doversela cercare, rispondono con una produttività superiore a quella “naturale”.
I “pesticidi” di sintesi hanno avuto come progenitore, in campi extragricoli, il DDT cui, usato nell’ottica del “tutto e subito” purtroppo, ma gli deve riconoscere l’aver debellato la malaria in gran parte del mondo; senza quello sarebbe morta più gente di quanti ne ha uccisi il DDT.
Poi, fra gli insetticidi e gli anticrittogamici vennero arseniati, esteri fosforici, carbammati, e tanti altri.
L’ottica del “tutto e subito” venne applicata alla grande, in quantità sempre crescenti suggerite da chi produceva e vendeva quei prodotti nella filosofia "più ne distribuisci più guadagno", fino a che, al cresce delle conoscenze si prese la strada di ridimensionare l’impiego, regolamentarlo e razionalizzarne l’uso anche per il costo che, in ogni caso, bisognava pur mettere in conto.
Gli anni ’50-60 sono stati quelli della lotta “a calendario” (trattamenti quando si supponeva potesse succedere una infestazione, indipendentemente ci sarebbe stata o no). Era la frutta che chiamo le “mele di Biancaneve”, perfette nella forma, belle a vedersi specialmente quelle selezionate in America: le Stark, le Golden, le Granny Smith e altre poco resistenti alle malattie, tanto ci pensava la chimica anche se lasciava le sue tracce avvelenanti la polpa.
Negli anni ’70 si passa alla “lotta guidata” (si interviene solo se l’infestazione arreca danni superiori al costo del trattamento) e, in quelli ’80, alla “lotta integrata” (si interviene solo in caso di necessità dopo essere ricorsi all’aiuto di iper-parassiti naturali favoriti nella loro diffusione).
All’agricoltore di 30anni prima, che distribuiva i pesticidi a man bassa (si “dava l’acqua” !) subentra un agricoltore-tecnico che ha conoscenza dei prodotti, li usa razionalmente, rispetta i suoi campi, gli impianti e l’ambiente in cui opera. Si tenga presente che dagli anni ’80, in Italia, i residui dei fitofarmaci in ortaggi e frutta sono nettamente al di sotto dei limiti stabiliti dalle nostre leggi (più bassi rispetto alla CEE) statisticamente nell’ordine del 70-80%; il 16-18%, comunque è dentro quei limiti e appena l’1-2% (dati medi degli anni 2003-2007) è al di sopra solo per qualche parte per milione, quindi “fuori legge”, ma è da ricordare che, a seconda del principio attivo, il limite di legge è stabilito in ragione da 1.000 a 10.000 volte inferiore alle soglie di rischio.
Dagli anni ’80 si diffonde la mania del “natura è bello” che fa radical-chic ma finisce per associare nel calderone i problemi più vari dal progresso all’ambiente, dalla politica alla filosofia. Nascono associazioni chiassose quanto poco competenti che fanno breccia nei sia nei salotti che nelle piazze tanto che, costituite in “partiti” in più occasioni diventano ago di bilancia nei consessi di governo.
Nascono le norme, si erogano “contributi”, si crea battage, nasce slow-food (che scalza Arcigola), si mette in moto un giro di affari ora attestato sui 2.500-3.000 milioni di euro fatturati che comunque, nonostante il chiasso, rappresentano appena il 3% dei consumi alimentari marginandosi in una nicchia sostenuta da un appeal psicologico senza basi scientifiche per consumatori che si innamorano del “bio” mescolato a certa voglia di “ritorno al passato” sicuri che “ciò che è naturale è buono” quindi il “bio” è buono per definizione.
Mi vien da pensare alla polenta "del passato", naturale e genuina di sicuro ma in Friuli ha fatto più morti di pellagra delle mele del Trentino.
E’ molto più sano quanto si produce in tutta Italia, sottoposto ai controlli dello Stato. E’ meglio una produzione locale, tradizionale, di stagione, piuttosto che le ciliegie a Natale o i pomodori, venuti da chissà dove e, magari, dichiarati “biologici”. Una mela “biologica”, o l'insalata, dal punto di vista nutrizionale o di sanità, non hanno nulla di più di una mela o di un'insalata tradizionale. Non hanno mica più vitamine !
In molti casi il “bio” apre ad altri problemi (si pensi alle aflatossine nei cereali, e derivati, stoccati senza controlli sulle micro-muffe) o all’olio extravergine “biologico” dove il controllo del parassita più pericoloso, la mosca delle olive, è affidato alla ... fortuna. Nell’olivicoltura tradizionale si usa il dimetoato (rogor) che, non essendo liposolubile, non passa nell’olio e le eventuali tracce occasionali sono qualche milionesimo di quanto se ne respira girando a piedi in città.
Gran parte dell’interesse nella produzione del “bio” è legato ai contributi comunitari che lo sostengono più che ad un convincimento filosofico.
Infine, senza togliere nulla alla serietà degli operatori, l’aver affidato il controllo di filiera ad Organismi privati che surrogano un obbligo dello Stato, lascia sempre qualche margine di dubbio specialmente quando "girano" parecchi soldi.
Va bene il biologico, ma se l’agricoltura italiana fosse tutta convertita, non ci sarebbe produzione sufficiente aprendosi alle importazioni da Paesi che, in quando garanzie, lasciano molto a desiderare.
Va bene il biologico, ma non ammantiamolo di meriti che non ha anche se qualcuno sostiene che arando i campi con i buoi, il grano sia più buono che quello cresciuto in un campo arato da una trattrice. De gustibus.
... madonna quanto scrive questo !
ettore